Il risultato è come doveva essere, sette ‘votanti su dieci’ hanno scritto SI’. Il contesto in cui si è votato, lo preannunciava, tre decenni di diffuso disprezzo della politica hanno prodotto sfiducia verso partiti e istituzioni, il cui giudizio è confinato nelle convenienze. Solo il 17 per cento degli Italiani, confiderebbe ancora nella politica e rimarrebbe convinto che le istituzioni debbano il perno fondamentale per la qualità della convivenza della comunità; con molta probabilità, quel 17% di italiani coincide in larga misura con il 30% di chi ha votato. Il costante disprezzo del far politica, induce le persone migliori a tenersene alla larga, ma se il ‘mood’ è, che di politica se ne occuperebbero solo i peggiori, diventa paradossale il tentare di far credere che la riduzione del numero dei parlamentari possa produrre il miracolo del loro ravvedimento. Sono così destinate a cadere nel nulla, le elucubrazioni della ‘politologia d’accatto’, quella che ci viene irrorata da mattina e sera dai teleschermi, la cui missione è quella di fungere da influencer dell’elettorato.
Il No non ha vinto, ma non ha, fino ad ora perso. Partiva chiaramente handicappato, è difficoltoso contraddire le percezioni giuste o ingiustificate di istituzioni inutili in quanto inefficienti e presidio d’incompetenza, il cui fine, sarebbe quello di conservare, senza alcun ritegno, poltrone e prebende e che finalmente sulla scena, fossero arrivati gli eredi di Torquemada a smascherare il sistema. Eredi che ispirandosi un po’ con Robespierre e un po’ con Stalin, considerano fondamentale il ricorrere al ‘cupio dissolvi’, la cui premessa non può che essere il ridimensionamento dell’impianto giuridico-funzionale della rappresentatività, fondamento delle democrazie liberali.
La dimensione del composito consenso dato al No, rinvigorisce teoricamente le potenzialità di difesa dei valori della democrazia e non è un caso, che qualcuno con malcelata irritazione, pretenda di ridimensionarlo in espressione ‘nordica’ da territori di borghesia rossa e dalle zone ZTL delle aree urbane, rifiutandosi pregiudizialmente, di poterlo configurare come un voto ragionato nonché libero da suggestioni umorali.
Mattia, il buono dei Feltri, riferendosi alla consapevolezza di chi va a votare , evidenzia in un suo ‘Buongiorno’ su La Stampa di qualche giorno fa, come in Svizzera, Paese dove si fa ricorso al referendum più che altrove nel mondo, nei referendum degli ultimi anni, gli elettori abbiano saputo respingere proposte accattivanti: l’abolizione del canone della TV pubblica (il più alto al mondo), con il 78%; il reddito di cittadinanza (2200 euro al mese per gli adulti e 500 per i minorenni); la proposta di legge per l’espulsione dal suolo elvetico degli stranieri riconosciuti colpevoli di reati; la normazione di definire in un massimo di dodici a uno le differenze tra gli stipendi.
Al di là delle affabulazioni multimediali, i numeri sono questi: a votare sono andati 24.653 elettori, poco più del 50% degli aventi diritto, ne consegue che i 17 milioni che hanno votato Sì, corrispondono a poco più di un terzo degli italiani. Se si corrisponde il voto nelle urne a quello di Camera e Senato, si constata che al novanta per cento dei rappresentati del popolo che in Parlamento hanno votato Sì, avrebbe dovuto corrispondere 21 milioni di Sì nelle urne, il risultato finale dice che ne mancherebbero per la corrispondenza non meno di 4 milioni. Dai riscontri dei numeri elettorali, l’affluenza al voto è stata inferiore nelle Regioni e nelle Città dove non si votava per il rinnovo delle relative governance e che la percentuale dei No, è stata superiore alla media nazionale, non solo nelle regioni del centro nord, ma anche in: Liguria, Toscana, Marche, Veneto e Trento e Bolzano, dove si votava. Probabilmente non è un azzardo interpretativo, presupporre che il 17% di chi nutrirebbe ancora fiducia nella funzione della politica, possa coincidere con il voto del No, e che a questo voto si debba dare una continuità in termini di riforme istituzionali.
Sull’onda del 70% di S’, Beppe Grillo, a Bruxelles, davanti al Parlamento Europeo, ha intonato il ‘de profundis’ della democrazia rappresentativa, stimolo agli ‘eredi’ del domenicano spagnolo a proseguire a sbocconcellare l’attuale sistema, picconandolo con il metodo della delegittimazione. Di fronte a questi palesi tentativi, il ‘popolo’ del No, non può restare inerme, lacrimando sulle violazioni della Costituzione o avvinghiandosi alla sacralità del testo ‘scolpito’ dagli antichi padri, ma deve dimostrare di avere il coraggio politico per reagire, opponendosi alle manfrine dei compromessi. Parafrasando Bacone, ‘pars destruens’, e ‘pars construens’ sono tra loro incompatibili, ancor più se al centro vi sono le regole della convivenza democratica, la cui declinazione non può non prescindere dal sistema ampio e interrelato nel quale è inserita, profondamente mutato dal ‘ tempo dei ‘padri’ della nostra Costituzione. Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti, rammentava al popolo che ‘i padri fondatori erano morti così come i loro elettori e i morti non hanno poteri o diritti sui vivi’. Gli antenati delle democrazie liberali, i costituenti francesi del 1791, avevano stabilito l’obbligo ‘costituzionale’ di una convenzione nazionale ogni vent’anni, per verificare o modificare le tegole. Montesquieu che fu un loro precursore, predicava che nella definizione liturgica delle regole costituzionale, nessuno dei partecipanti alle indispensabili convenzioni costituenti dovesse poi partecipare alle elezioni politiche, antesignana preservazione dal conflitto d’interessi.
Il fronte del No, non può non attendersi una leadership politico-culturale che s’ispirasse coraggiosamente a questi principi, per sottrarre le regole della convivenza dalla spregiudicatezza di maggioranze strumentali così come dalla retorica per l’immobilismo. Se il popolo ha sempre ragione quando vota, la percentuale di No espressa richiederebbe di essere rappresentata da oltre 250 parlamentari, che dovrebbero avere il coraggio della dignità, per pretendere la richiesta di revisione della Costituzione, a cominciare dalla modifica dell’Articolo 138, quello che limita ad un organismo terzo e super partes, di produrre responsabilmente in modo trasparente nuove regole, affinché il Paese possa avere gli elementi per una valutazione coerente. In altro articolo della ‘Voce’, Giovanni Cominelli, ripercorre con la usuale lucidità le cause del progressivo deterioramento della qualità della nostra democrazia, la cui conseguenza ricade su quel pericoloso 83% di disaffezione da politica e istituzioni, e che apre praterie allo scorrazzare dei ‘corsari’ della politica, nostrana, ispirandosi ai Trump, ai Jhonson nonché a Putin, e Xi Jinping per ragioni di business.
A chi sostiene che l’attuale Parlamento sia delegittimato causa il ridimensionamento numerico derivante dal voto referendario, dovrebbe essere contrapposto che se vi fosse una delegittimazione essa deriverebbe da quel 30% di No che reclama di essere rappresentato La riprova dell’attualità della nostra Costituzione non può prescindere dalla sua verifica di compatibilità e/o correlazione con funzioni e ruoli della pluralità di soggetti istituzionali, costituitesi successivamente alla sua entrata in vigore e che nel sistema delle interrelazioni transnazionali ridistribuiscono potestà e responsabilità e che inducono a iter e processi impossibili da prevedere dai ‘padri costituenti’. La prima anomalia in tal senso, è il permanere dell’inusuale vincolo della doppia lettura tra Camera e Senato, in merito siamo unici in Europa; così come l’inattualità di una non rivisitata separazione di funzioni tra il legislativo ed esecutivo, dimostrato dal costante ricorso al compromesso della decretazione con annesso ticket di pretesa fiducia, che da un lato delegittima il legislativo e dall’altro espone i provvedimenti a modificazioni che ne arricchiscono la complessità inoltrandole nel bosco della burocrazia; la ridefinizione dello stato di cittadinanza in senso lato, e del diritto di voto nelle comunità locali, cui dovrebbe corrispondere ai principi introdotti dalla rivoluzione americana, ‘No taxation without representation’.
La dinamica degli eventi interni e internazionali ha introdotto modificazioni mal abbozzate nella ‘Carta’, come la revisione del modello di articolazione del sistema istituzionale, per ispirarlo al recupero di efficienza funzionale, presupposto che non è in contrasto con la democrazia, soprattutto in un epoca caratterizzata dalla rivoluzione tecnologica, che rende più che mai critica la presunzione di centralità strategica da concentrarsi nel Governo e nel Parlamento, Stato, ne consegue l’esigenza di un compiuto il modello di decentramento di funzioni, coerente con la coniugazione dei due aspetti, una moderna concezione di federalismo e il consolidamento razionale delle potestà del municipalismo, che mantiene la sua funzione storica di riscossione della fiducia dei cittadini.
E’ richiesto un impegno di alta ispirazione e aspirazione, con l’obiettivo di ridimensionare il muro diffidenza e ostilità che assedia istituzioni e rappresentanze, presupporre che sia sufficiente il perenne maquillage del modello elettorale, significa ridimensionarsi a un compromesso da raggiungere ispirato dalla speranza di successo elettorale di maggioranze che lo promuovono.
In un sistema in cui la democrazia viene quotidianamente appaltata ai media e testata dall’improvvisazione demoscopica, per misurarne l’effetto provocato dal profluvio di ‘twit’ e dichiarazioni estemporanee che quotidianamente rimbalzano da un media all’altro, l’ambizione del ‘fronte del No’ non può che essere quello di leva del processo riformatore, indispensabile a preservare la democrazia e anche la Costituzione dal declino.