Da queste colonne si è sempre sostenuta la convinzione che un modello di autonomie condiviso, consentirebbe al Paese di uscire da quella perdurante condizione di difficoltà e spesso d’incapacità nel reggere il confronto con le dinamiche delle reti che segnano i veri confini delle comunità.
La preservazione dell’unità, l’estensione delle con l’introduzione di quelle differenziate, il federalismo che s’invoca più per l’Europa che per il Paese, non sono mai state oggetto di una riflessione compiuta e condivisa, sia per la strumentalizzazione dei pregiudizi ideologici, e sia per le convenienze a lasciare tutto come sta.
In fondo, il primo tra i moderni promotori di Federalismo, il professor Miglio, fu ben presto ‘sedato’, perché il suo partito stava al Governo, e la possibilità di ‘schisciare’ i bottoni centrali, mal si confaceva con il dover condividere potestà, per di più in coincidenza con la presa di potere nei governi regionali; comunque si poteva fare marketing politico ricorrendo al folclorismo: le ampolle del Po, il Parlamento padano, he il rituale degli happening sul pratone di Pontida.
La lunga crisi economica, la ‘transnazionalizzazione’ di alcune potestà, le difficoltà fiscali di un Paese gravato da un enorme debito pubblico con differenti capacità di reazione alla crisi territori, ha seconda dei territori ha indotto a rilanciare la centralità dell’autonomia, vedasi i referendum sull’autonomia, e di proporla a rango di questione centrale. Ma oggi come allora, i promotori dei referendum sono al Governo, e la pretesa di autonomia, continuando ad essere orfana di una visione più ampia di prospettiva, assume la configurazione di una opportunità legislativa tecnico-burocratica, di grande portata, che non può che far sotto intendere l’esigenza di revisione dei principi di solidarietà che sono alla base della convivenza nazionale.
Una convivenza oggetto di critiche da Nord a Sud ma anche da Est e Ovest, che ha funto da alibi legittimatorio nonché inibitorio di qualsiasi iniziativa che potesse stimolare e responsabilizzare le classi dirigenti territoriali a predisporsi in modo coerente, per affrontare il divenire dei fenomeni, di provenienza sempre più esogena al loro sistema di riferimento, sempre più complesso da ricondurre al perenne assistenzialismo.
Dopo Miglio ieri, oggi è una altro saggio, Piero Bassetti, studioso assiduo delle sempre più inevitabili contaminazioni tra fenomeni e funzioni globali sul locale, che pone una riflessione ineludibile per la politica del Paese e le sue istituzioni, il voto del 4 marzo mette inequivocabilmente in discussione il Paese centralizzato e post risorgimentale, da una parte,c’è un ‘centro destra che vuole lo Stato, e dall’altra il Movimento 5 Stelle che vuole solo i soldi dello Stato’, una divergenza, che per ora si è ricomposta nella convergenza sui soldi da prevelare per distribuire i dividendi elettorali, ma che non può più essere mantenuta per il futuro.
Se un pezzo del Paese, guarda alle modalità di accesso alle assistenze, l’altra parte contesta la politica dei dividendi e preme perché la perversione del sistema venga spezzata, gli scenari sono mutati, alla globalizzazione non ci oppone con adunate e politiche del no a priori, la riproposizione dello Stato imprenditore, è un velleitario ‘deja vue’ ideologico, che non risolve né i macro problemi del lavoro e nè quello della produttività e dei costi sociali.
In Italia la questione differenziale dei territori è latente da tempo, avrebbe dovuto suggerite la riflessione approfondita, sulla corrispondenza dell’ ingegneria istituzionale e relative attribuzioni funzionali, sulla loro corrispondenza alle esigenze della democrazia moderna che sollecita inclusione e condivisione, ma anche produttività, perché sempre più stratificata e interconnessa tra livelli istituzionali diversi: Unione Europea, Regioni, Grandi Comuni, ognuno dei quali strategicamente incidente sulla vita delle comunità.
Il presupposto, è l’ inevitabile condivisione e suddivisione di poteri e di funzioni tra istituzioni, da perseguire in un quadro di coerenze con la complessità dei processi relazionali per il perseguimento delle indispensabili autonomie e per rimuovere le prassi, che assistenzialismo sociale e fiscale possa continuare a configurarsi come il jolly per risarcire o scambiare voti.
Ma nel processo per realizzare l’autonomia, non si può non tener conto del modello di Stato a cui si tende, se a prevalere è la visione sovranista, l’architettura funzionale che ne consegue rischia di riprodurre le stesse caratteristiche e di difetti, e la transizione tra Stato e Regioni, si riduce, come sta avvenendo oggi, a riprodurre un secondo livello di dirigismo sovrano. Il processo per l’autonomia non può quindi prescindere da quale Europa s’intende, se quella degli Stati o quella dei territori e delle città urbanizzate, perché se a prevalere fosse la concezione sovranista l’autonomia che ne consegue non può essere quella giusta.
Si ha l’impressione che a prevalere sia la suddivisione sovranista, che riproponga paro pari la sottovalutazione delle differenze istanze dei territori, che non sono geografiche bensì funzionali, istanze diverse chiedono potestà e rappresentanze diverse.
Il processo in corso per l’autonomia differenziata, legittima chi la considera una forzatura, se rapportata alla Costituzione e al suo spirito, il percorso adottato ne ha tutto il sentore, perché i vertici si fanno tra Stati e non tra istituzioni, soprattutto se chiamate a sottostare al Parlamento, che così possono indurre far a considerare che l’autonomia ipotizzata possa essere non condivisa dal Paese.
La carenza del disegno complessivo è oscura, non può esaurirsi nel succinto elenco indicato nei referendum, si deve indicare il fine, elencare i vantaggi complessivi per il sistema, le relative devoluzioni preventive, il modello organizzativo attuativo con relativa predisposizione, i termini di vantaggio per le due comunità: quella territoriale e quella nazionale. Da queste esigenze, l’informazione preferisce astrarsi, privilegia a sintetizzare il tutto nel calderone della quotidianità degli scontri all’interno della maggioranza, e dedicarsi al calcolo delle probabilità sulla tenuta del Governo, ma intanto il Paese continua a patirne le conseguenze, a premunirsi in proprio contro le paure vere, come stanno a dimostrare i 1371 miliardi che stazionano nelle banche nazionali, perché non dove poterle indirizzare.
Gli autonomisti convinti e quelli di complemento sono pronti a privilegiare il piuttosto che il niente, ma se ciò vale in molti altri casi, non deve valere quando di mezzo ci sono le regole e le funzionalità della democrazia per la qualità della vita delle comunità, il limitarsi al piuttosto può essere assai pericoloso, ha ragione il Sindaco di Milano, quando invita Governo e Regioni a fermarsi, e spiegare bene al Paese, scelte e conseguenze.
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