L’irrigidimento dell’atteggiamento statunitense verso la Corea del Nord ha provocato, nelle ultime settimane, un aumento della tensione dell’area dell’Asia-Pacifico. Negli scorsi giorni, tale tensione è sembrata sconfinare oltre i limiti della guerra anche se la ‘bolla’ pare essersi in parte sgonfiata dopo il fallimento del test dello scorso 16 aprile. Non è facile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di questa crisi. L’isolamento internazionale di Pyongyang rappresenta un incentivo forte alla radicalizzazione delle sue posizioni; d’altra parte, gli impegni assunti da Washington e l’intenzione espressa dall’amministrazione Trump di non lasciare superare la ‘red line’ fissata impedisce agli Stati Uniti di abbandonare il campo senza subire un grave danno per la loro credibilità. In questo scenario, il convitato di pietra rimane la Cina, maggiore alleato di Pyongyang ma, allo stesso tempo, alla ricerca di un modus vivendi con Washington che le permetta di perseguire i suoi obiettivi di leadership regionale. Gli anni della seconda presidenza Obama sono stati molto positivi per i rapporti sino-americani e proprio sulla questione del nucleare nordcoreano si sono registrati importanti segnali di convergenza. L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca aveva destato qualche timore fra gli osservatori ma, al momento, il nuovo Presidente sembra intenzionato a proseguire, con Pechino, quella che appare, nella sostanza, una politica di buon vicinato. Il favore che ‘The Donald’ ha manifestato per la posizione assunta dalla Cina durante le ore calde della crisi è forse il miglior segnale di questo stato di cose. Ciò non significa che fra Washington e Pechino non esistano divergenze anche profonde. Tuttavia, almeno sulla posizione da tenere nei riguardi della sfida posta dal governo di Kim Jong-un gli elementi di convergenza non sembrano essere venuti meno.