‘Modello Milano’, a parte il calcio, sembra essere diventato una di postulato per richiamare successo e in non pochi casi con una certa ragione, ma in altri, a sproposito; in particolare per tutti quelli cui l’astratta evocazione serve volutamente a isolare se non omettere, il riferimento all’humus che agisce da determinante facilitatore. Se si parla di Olimpiadi o di organizzazione di qualsiasi grande evento d’impatto planetario, l’evocazione del modello milanese, vorrebbe presupporre che, dopo il grande successo di EXPO e il parametro di qualità perseguito, diventino quello dell’eccellenza che non si raggiunge solo con i proclami di buone intenzioni. La stima cui si guarda a un’eventuale candidatura di Milano, a organizzare le Olimpiadi Invernale del 2026, si riferisce proprio a quell’eccellenza d’ambiente che non può essere né ridimensionata né delegittimata dal provincialismo strumentale di ricorrere alla geopolitica degli interessi elettorali di qualsivoglia partito. Se invece, a evocare il modello Milano, diventa un alibi per non dover modificare la retorica, dell’infinito dibattito del Partito Democratico, non si può che restare perplessi, soprattutto se lo si limita alla composizione politica della maggioranza che governa la città. La specificità del ‘Modello Milano’ nel panorama nazionale e internazionale si caratterizza per l’humus inclusivo delle sue molte eccellenze: culturali, sociali, imprenditoriali, religiose che concorrono a creare un contesto positivo e funzionale per il buon governo della città, e che si sta protraendo da trequarti di secolo. Il sindaco di Milano, non è mai stato espressione diretta e militante di un partito a vocazione maggioritaria, sia nella prima repubblica, sia nella stagione bipartitica e sia nell’attuale. Ciò garantisce che il Sindaco possa essere l’interprete oltre che dei partiti che compongono le coalizioni di maggioranza, anche e soprattutto di quel vasto popolo di milanesi, nuovi e vecchi, più interessati a valorizzare il bene comune che non la propria carriera personale, il che costituisce una positiva convergenza, tesa a riaffermare e consolidare il senso civico di appartenenza.
Chi, a seconda delle stagioni, ha cercato di radicalizzare il confronto, ha finito per essere punito elettoralmente, in quanto in un sistema di alternanza democratica non possono evapora le responsabilità di chi ha governato prima o di chi governa altre istituzioni condizionanti, anche se ciò non deve fungere da alibi per chi è chiamato a governare. Così è il caso delle periferie, che da oltre un quarto di secolo soffrono d’incuria, per la fatiscenza manutentiva delle case popolari di proprietà della Regione Lombardia, per l’ingiustificabile tolleranza nei confronti dell’occupazioni abusive di alloggi popolari, usurpando coloro che ne hanno diritto, così come per lo svuotamento delle funzioni sociali e di protettiva sicurezza, dei ‘vecchi e cari vigili urbani’ , che lo sceriffo dalla stella di latta Decorato, ha contribuito a trasformare in ‘poliziotti locali’ più attenti ai propri diritti sindacali che non al coinvolgimento nella responsabilità civica. Il Modello Milano, mal si acconcia a un Paese, in cui a prevalere è il protezionismo provinciale, il rifiuto del nuovo, la convinzione che sia solo il ‘pubblico’ a dover provvedere a tutto, innescando così le spirali del dissenso a prescindere o del voto di scambio. In contrasto con lo scenario sopra descritto, il ‘Modello Milano’ è chiamato oggi a confrontarsi sulle grandi trasformazioni, che impattano su competitività e attrattività del proprio sistema, ma anche su quelle che impattano la democrazia, il rapporto capitale e lavoro, la geopolitica e i relativi impatti sul suo sistema (vedi dazi) e della natura umana di fronte alla diffusione dell’intelligenza artificiale e l’ingegneria genetica. Come si evince, si tratta di una pregnante diversità, rispetto a quella evocata da Berlinguer e declinata dai suoi eredi che è stata molecola prioritaria del ‘kernel’ del Partito Democratico, che lo ha circoscritto a un’autoreferenzialità, che oggi non gli è riconosciuta e perciò rigettata dagli elettori. Il ‘Modello Milano’ inteso come humus condiviso, può diventare il sistema di riferimento solo se stimolerà i territori ad assumersi la responsabilità di valorizzare la cultura dell’autonomia e la propensione a provare ad essere autosufficienti, nel rapporto tra amministrazioni e Stato Matrigno, e se riuscirà a far superare al PD, la sindrome della vocazione maggioritaria che presume le pregiudiziali priorità per la propria classe dirigente, indipendentemente da competenze e contesti.