Abbiamo poco più vent’anni. Abbiamo poco più di vent’anni e siamo cresciuti nell’era della fiducia. Nell’era in cui per viaggiare si fa Couchsurfing, ottenendo un posto letto in cambio di una chiacchierata, di uno scambio di esperienze. In cui le macchine e le case non si comprano, ma si usano e si condividono. Siamo pronti a salire su una vettura di uno sconosciuto per tornare a casa, per abbassare i costi e farci compagnia (sembra follia? Si chiama BlaBlaCar, ha 40 milioni di utenti ed è valutata a 1.5 miliardi di dollari). Da quando siamo piccoli, siamo abituati a guardare al di là delle nostre città, dei nostri paesi: le vacanze studio, l’anno all’esto al liceo, gli scambi intercontinentali, l’Erasmus.Proprio quest’anno, la generazione Erasmus compie trent’anni. Un’età simbolica, in cui si matura, si tirano le somme, e magari si abbandonano quelle illusioni un po’ naif dei vent’anni. E se tutti i nostri ideali, quelli in cui siamo cresciuti, quelli su cui abbiamo fondato le nostre vite e le nostre carriere, fossero soltanto illusioni? Il 2016 è stata una doccia fredda, per noi. E lo è stata perché quel che è successo (il rifiuto dell’Unione Europea da parte di uno dei paesi più forti, l’elezione di un presidente populista, xenofobo e –ammettiamolo- anche un po’ ignorante nella nazione più potente del pianeta) non era contemplato nella nostra visione del mondo. Semplicemente non poteva succedere.Mi sono trasferita a Londra il giorno del referendum (che fortuna, direte voi). Mi sono trasferita con valigie pesanti e il cuore leggero, perché Londra era il sogno di una vita: era libertà, era realizzazione professionale, era farcela da sola, era incontro e coabitazione di culture, era tutto quello che l’Italia (provinciale, un po’ corrotta, priva di reale voglia di cambiamento) non è ancora e forse non sarà mai. Mi sono trasferita a Londra il 23 Giugno. E quella stessa notte il paese ha deciso che ne aveva abbastanza di me. Ne aveva abbastanza di migranti specializzati e non, di una visione di futuro condivisa, di libero scambio di idee culture merci persone, di noi europei.La Brexit è stata una porta in faccia, il supremo rifiuto di un paese, di una città, di un mondo che mi aveva attratto come il canto di una sirena, e poi attaccato e respinto sul più bello. Non so per quanto potrò chiamare Londra casa, non so se dopo la fine degli studi mi sarà possibile trovare un lavoro, o se sarò costretta a tornare a casa. E con me non lo sanno il mezzo milione di Italiani e i tre milioni di europei che si sono trasferiti per inseguire un sogno, per essere remunerati giustamente per le proprie competenze, per non rimanere bloccati nelle maglie della burocrazia (ma anche per amore, per fuggire, per ritrovarsi).Si potrebbero cercare altri porti. Altre mete, altri sogni. Ma dovunque ci giriamo, siamo travolti dall’apparentemente inesorabile caduta della globalizzazione, del liberalismo, dell’apertura all’altro: l’accesso alla Silicon Valley, paradiso di ogni innovazione, e a Wall Street, sogno di tutti gli aspiranti broker, sono preclusi a chi non professa la religione giusta, a chi (addirittura) ha visti sul passaporto di paesi nemici. La mappa del mondo si restringe ogni giorno che passa.Ed allora forse dovremmo capire che è ora di smetterla di fuggire in altri luoghi, di cercare paesi che rispecchino e proteggano i nostri ideali e la nostra visione del mondo. Dovremmo capire che è ora di lottare, qui ed ora, per costruire un mondo all’altezza delle nostre aspettative. Non fuggire dal divisismo, dalla xenofobia, dalla paura, ma affrontarle e sconfiggerle. Magari senza aver bisogno di scappare a Londra, o qualunque sia la nostra terra promessa.Perché noi abbiamo poco più di vent’anni e siamo cresciuti nell’era della fiducia. Ed è con questa fiducia che continueremo a guardare al mondo, e cercheremo con determinazione e testardaggine di costruirci un futuro all’altezza delle nostre aspettative.